Il carnevale goriziano, in altri tempi, veniva festeggiato con una serie di manifestazioni caratteristiche di questo periodo pre quaresimale, che culminavano il “Martedì grasso” e si concludevano definitivamente il giorno successivo, dedicato questo alle delizie dei beoni. La rievocazione dei nostri padri ci reca immagini di feste spettacolari, confuse a mascherate esilaranti attraverso la città, e cavalchine gioiose nell’elegante cornice del Teatro di Società.
Sfogliando le cronache di Guido Bisiani, cronista e storico della città di Gorizia e di Borgo San Rocco, possiamo ricavare che il carnevale in città era un periodo dell’anno molto intenso ed atteso, soprattutto nella prima parte del XX secolo, con una notevole serie di iniziative che andavano dalla sfilata, ai balli, alle sfide ma tra tutte spicca per imponenza e qualità il Pallio dei Borghi, anche detto della Dama Bianca, che venne organizzato nel 1955 e del quale si potrà rivivere il clima attraverso il grande repertorio fotografico di Arduino Altran.
E citando proprio una delle tante testimonianze scritte che Guido Bisiani ha lasciato in oltre sessant’anni di attività storiografica si può chiaramente riscontare che “nel ricco patrimonio di usi e costumi che a Gorizia nel corso dei secoli si è saldamente radicato tramandandosi i generazione in generazione in generazione e creando quella somma di valori che fanno parte integrante della cultura popolare e della tradizione, uno spazio non trascurabile è riservato al carnevale e alle sue molteplici e spassose manifestazioni. Negli anni Cinquanta prese corpo il Carnevale della Dama Bianca con il relativo pallio. L’iniziativa, avviata con notevole impegno da istituzioni e cittadini, si ridusse purtroppo ad una meteora in quanto si esaurì dopo solo due anni (1955 – 1956) e ciò per problemi di natura principalmente finanziaria. In quegli due anni i goriziani e i molti forestieri assistettero a un corteo carnascialesco di tutto rispetto e tale da suscitare fondate speranze per un promettente futuro a valenza interregionale. Va detto che il pallio della Dama Bianca nelle due formate edizioni era solo il culmine di un lungo e spensierato percorso – dall’Epifania al martedì grasso – in cui goriziani di ogni età e ceto si sentirono coinvolti. Presero corpo e si rivitalizzarono i borghi cittadini, dando impulso ad una cavalleresca tenzone, improntata sempre al reciproco rispetto e caratterizzata da vivacissimi episodi di stile tipicamente goliardico. Il tutto arricchito da serate danzanti e da animati incontri con scambi di doni, cenette e brindisi tra gastaldi, priori e rispettive “milizie”. Al corteo allegorico poi erano abbinati il torneo cavalleresco tra i borghi stadio di via Baiamonti, e l’elezione della Dama Bianca”.
La raccolta di documenti relativi al Carnevale goriziano, con particolare riferimento a quello della Dama Bianca, che pubblichiamo qui di seguito è parte del prezioso archivio personale di Guido Bisiani, al quale ribadiamo il nostro ringraziamento più sincero.
Carnevale d’altri tempi
“Il Lunedì” del 9 febbraio del 1948 a firma di Guido Bisiani
Il carnevale goriziano, in altri tempi, veniva festeggiato con una serie di manifestazioni caratteristiche di questo periodo pre quaresimale, che culminavano il “Martedì grasso” e si concludevano definitivamente il giorno successivo, dedicato questo alle delizie dei beoni. La rievocazione dei nostri padri ci reca immagini di feste spettacolari, confuse a mascherate esilaranti attraverso la città, e cavalchine gioiose nell’elegante cornice del Teatro di Società.
Da gennaio a mercoledì delle ceneri si susseguivano nelle sale cittadine le veglie danzanti con una collana di attrazioni talvolta veramente piacevoli. La Ginnastica organizzava nella sala di via Rismondo il ballo dei bambini; il gruppo goriziano della polisportiva “Il Giovane Friuli” e i tipografi goriziani allestivano il loro festino nella sala dell’albergo “Angelo d’Oro”. Anche il Gabinetto di Lettura e le Società del Casinò di Cura solevano festeggiare il carnevale con veglioncini, e così i pompieri con il veglione al Teatro Sociale, i lavoranti macellai Alla Ginnastica, i vetturali all’Albergo “Città di Gorizia” e via di seguito. Di particolare importanza nel carnevale goriziano l’annuale veglione della Lega Nazionale al Teatro di Società (Teatro Verdi), con imponente partecipazione di goriziani, in un’atmosfera commovente. Le cronache dell’epoca portano in grande rilievo la tradizionale festa patriottica. La Riunione Famigliare Goriziana soleva organizzare una veglia ricca di attrattive, nel salone Dreher. Quarant’anni fa, per esempio, veniva allestita in sala una trattoria alla “sanroccara”, denominata “Al Fantato”, e gli addetti indossavano costumi secenteschi, mentre rubiconde donzelle offrivano dolci prelibati sottoforma di ufiei, il caratteristico ortaggio di Borgo San Rocco; villotte di Zorutti ed altre sorprese divertenti coronavano la festa.
Nel carnevale del 1899 e nei seguenti era in gran voga la canzonetta “il marameo”, notissima ancora oggidì, del goriziano Leonardo Vinci e proprio il 28 gennaio di quell’anno tale creazione fu premiata alla Ginnastica con il primo premio durante un’indimenticabile manifestazione patriottica.
Alcuni innanzi al conflitto 1915 – 18, si ideò il ballo dei contadini goriziani sotto la direzione di Raimondo Gorian prima, Stefano Vecchiet e Giovanni Vida poi. Oltre al ballo della Stampa, nel Teatro Sociale, il carnevale veniva festeggiato nella massima pompa con la rinomata cavalchina mascherata che annualmente aveva un nome come “Festa di Primavera”, “Festa di Maggio”, “Festa dei Ventagli” ecc.
Il carnevale goriziano culminava il “martedì grasso” con la popolarissima mascherata per le vie della città. Infatti nelle prime ore del pomeriggio si raccoglievano in piazza Vittoria (allora Grande), un’imponente numero di carri allegorici allestiti da singoli cittadini, società e gruppi delle varie borgate. I carri, taluni dei quali adorni con gusto indovinato, erano trainati talvolta, da due pariglie di buoi e trasportavano comitive di giovani mascherati, fra suon di fisarmoniche e cori campagnoli. Anche la nobiltà goriziana soleva comparire in piazza a bordo di carrozze signorili infiorate, dalle quali venivano lanciate sulle vie monete e dolciumi che originavano zuffe divertenti della “mularia”. Oggetto principale erano le signore e signorine, intorno alle quali si lanciavano caramelle con conseguente assalto di turbe di ragazzi in attesa. Gran uso si faceva delle caratteristiche “confetture”, palline all’uopo preparate, per bersagliare le ragazze.
Il corteo percorreva e ripercorreva per alcune ore piazza Vittoria, via dei Signori (Carducci), piazza Corno (de Amicis), alla presenza di quasi tutti i goriziani che in tal giorno accorrevano in festa nel cuore della città.
Il giorno successivo nei vari rioni cittadini si inscenavano i “funerali” del carnevale, raffigurato da un pupazzo, che finiva impallinato od annegato, ed il tutto culminava in sbornie fenomenali.
Narra a proposito la cronaca di quarant’anni fa, che in un vicino paese, anziché il carnevale, venne raffigurato sulla portantina degli improvvisati becchini, un dottore candidato alle elezioni dietali (Dieta Provinciale ndr.); gli organizzatori, arrestati, si ebbero dieci giorni di arresto rigoroso con un digiuno. Il carnevale goriziano costituiva indubbiamente un’attrattiva fra le più festose dell’annata per i nostri progenitori, e per quanti ancor oggi ricordano con nostalgia le care consuetudini sorte qui, all’ombra del nostro Castello e molte delle giunte fino ai giorni nostri.
Canzone che veniva cantata a Gorizia durante il corso mascherato, nel XIX secolo, per il carnevale; Pierina Bertos di San Rocco ha conservato il testo
Maschereta che te giri per le piazze e pei caffè con quei oci che tu impiri sotto il volto di bebè. E con la maschera oppur a viso mi sembri un angelo del paradiso. Digo vedendoti se te son quella, sì te son quella che te me ga rubado il cuor. Basime, basime la notte scura anche le maschere mi fan paura basime, basime sta ritta in piedi sta ritta in piedi sotto il feràl, che se passandote avanti al naso te dago un baso cosa sarà!
Il Ballo dei contadini
“Il Lunedì” del 28 febbraio 1949 a firma Guido Bisiani
Il Ballo dei contadini, che da oltre quarant’anni suole tenersi nella sala del Unione Ginnastica Goriziana il lunedì grasso, è una caratteristica manifestazione del Carnevale goriziano.
La “prima” di questa veglia, ormai tradizionale, si tenne il penultimo giorno del carnevale 1908, ad iniziativa di un gruppo di agricoltori e floricoltori cittadini, fra i quali Raimondo Gorian, Stefano Vecchiet, Giovanni Tausani e Antonio Drosghig. Alla festa intervennero le autorità cittadine con il sindaco Giorgio Bombi ed una folla che gremiva la sala convenientemente addobbata con motivi rustici.
A mezzanotte si svolse il rito simbolico delle nozze, così come solevano celebrarsi nella vecchia Gorizia, rito che costituisce tuttora la parte può attesa della serata. La cerimonia comprende il corteo nuziale accompagnante lo sposo sul palco per il prelievo della sposa, la quale, dopo il lancio della colomba, le pistolettate a salve ed il contratto di nozze – un gustoso battibecco fra i genitori degli sposi – viene consegnata al giovane designato. Fa seguito il brindisi, al canto d’un allegro versetto di circostanza.
Una decina di coppie di ballerini, con accompagnamento musicale, si esibiscono indi nell’antica danza popolare “La furlana” la quale si conclude con il ritornello:
“Tu balis tu Pieri si si che io bali le un piez che ti ciali Nin tu ses miò. Se ustu Ninine plui mior di cussì, ti ciapi, ti busi e ti meni a duarmì”
Sposi e ballerini si raccolgono infine a tavola, ove consumano allegramente la tipica cena con “polenta cul toc di dindiàt” (sugo con tacchino) e vino.
Grande interesse comporta la scelta degli sposi per questo simbolico rito al ballo dei contadini, poiché la coppia prescelta si ritiene ormai impegnata a convolare a nozze entro l’annata. Non meno curiosa la parte dei padri degli sposi, per lo scherzoso dialogo all’atto dell’unione dei due giovani promessi, e questo incarico ottimamente assolsero il primo anno e nei successivi i “sanroccari” Giuseppe Culot (Pepo Pignul) e Giovanni Nardini (Zan Miclaus) sostituiti in seguito da più giovani.
Dal 1908 al 1914 contribuirono all’esecuzione di questo spettacolo folcloristico diversi giovani dei nostri sobborghi, fra i quali ricordiamo Maria e Giuseppina Lutman, Maria Urdan, Giuseppe e Francesco Franco, Orsola e Giuseppe Drosghig, Francesco Brumat, Giuseppe Podbersig, Milano Martellani, Michele Tomsig, Pietro Bisiani e Giovanni Tausani . Dal 1920, anno in cui fu ripreso il ballo dei contadini, e fino al 1928, altri giovani presero parte alle danze nei caratteristici costumi, e fra questi Giovanna Piciulin, Giovanni Covacig, Pierina Bressan, Giuseppina Cumar, Giuseppina e Pietro Sossou, Luigi Nardini, Mario Turel, Antonio Cumar, Giuseppe Vecchiet, Rocco e Luigi Madriz, Giovanni Vida, Dionisio Paolin, Luigi Camauli, Antonio Culot ecc.
Nel 1924 ci fu una scissione in seno al Comitato organizzativo, per cui in quell’anno si ebbe il ballo dei contadini in due edizioni, in sala Vittoria ed in sala Ginnastica; il primo, indetto dai soci del Circolo Giovani Agricoltori (sorto nel 1920, con sede all’Albergo Cervo d’Oro in via Arcivescovado) ed il secondo dagli agricoltori più anziani. La serata folcloristica riprese però il suo carattere consueto l’anno successivo e più tardi nel 1929, una folta schiera di giovani apprese con entusiasmo il ricco repertorio nostrano di danze antiche, che permise così la felice continuazione della bella manifestazione fino ad oggi. Fra questi appassionati figurano Anna e Maria Culot, Anna Urdan, Carla Madriz, Silvia Culot, Luigia Zanetti, Alma Giorgini, Carmen Culot, Carmela Bisiani, Guido Quali, Antonio Vida, Silvio Nardini, Alberto Bressan, Teodoro Duca, Giordano Causer, Silvio Culot,ecc. Sin dalla fondazione il ballo dei contadini, oltre comprendere il lato folcloristico ed il ricco repertorio di valzer, polche e mazzurche (ai quali da tre anni a questa parte è stato ammesso qualche tango e qualche fox), allieta i partecipanti con una ghiotta pesca gastronomica, il cui ricavato è devoluto ad opere di beneficenza, mentre fino a non molti anni orsono esso era destinato alla cassa di una società d’assicurazione dei bovini.
A, capo (gastaldo) del Comitato organizzativo del ballo dalla prima edizione ad oggi risultano, Raimondo Gorian fino al 1920, Stefano Vecchiet nei tre anni successivi e, infine, dal 1924 ad oggi, Giovani Vida. Insegnanti di danza invece, furono fino al 1928 il maestro Ernesto Fabretto, per tre anni il maestro Armando Miani e dal 1931 Luigi Camauli.
Il ballo dei contadini ha contribuito efficacemente fin dalla sua fondazione all’incremento del folclore in Gorizia ed un bel gruppo di danzerini, in concorsi e manifestazioni folcloristiche in varie località d’Italia, ha conseguito lusinghieri successi, onorando così la nostra città.
Il carro dei norcini
Dalle cronache di Guido Bisiani, 1994
Tra le varie iniziative che nei tempi andati animavano il carnevale goriziano con i molti balli organizzati da corporazioni e società, le cavalchine mascherate e il corteo mascherato per le vie cittadine per finire poi, il mercoledì delle ceneri con i burleschi funerali, un piccolo ma vivace contributo era dato anche da una simpatica consuetudine di schietto sapore contadino. Ne erano protagonisti, a San Rocco a fine carnevale, i norcini (purzitàrs) una categoria allora quanto mai attiva e ricercata, oggi quasi completamente estinta.
I norcini sanrocchesi abilissimi nella lavorazione delle carni suine, per circa quattro mesi – grosso modo da ottobre a gennaio – erano impegnati nelle macellazioni a domicilio, non solo nel loro borgo ma anche in altre periferiche della città e nei paesi vicini. A voler tentare un bilancio si può dire che annualmente, dagli anni Venti agli anni Sessanti, veniva macellati e lavorati quasi duecentocinquanta suini, un centinaio dei quali nel solo rione di San Rocco. Una media quindi di circa due suini al giorno.
L’usanza cui più avanti riferiamo aveva origini lontane del tempo e si è esaurita qualche decennio fa per mancanza di protagonisti e di... materia prima in quanto maiali allevati nelle ormai rare case rurali dei sobborghi goriziani non ci sono più. Nella società contadina prevalente in passato l’allevamento dei suini costituiva uno dei pilastri della povera economia familiare.
Così a coronamento del carnevale i norcini e i loro coadiutori percorrevano su un carro trainato da buoi le vie del rione sostando presso le piccole aziende contadine nelle quali, durante le stagioni autunnale e invernale, erano avvenute le macellazioni. Il carro era agghindato, oltre che da sempre verdi, da motivi collegati al lavoro dei norcini stessi, quali festoni formati da ritagli di intestini (bugei) residuati dall’insaccatura dei salumi e da vesciche (bùfulis) debitamente gonfiate. Al suono di una fisarmonica o di un mandolino – come racconta Bruno Cumar uno dei protagonisti – s’intrecciavano le battute e le risa degli scanzonati viaggiatori e i colpi che due norcini, muniti di grossi coltelli a mezzaluna con doppia impugnatura (falzòns), battevano sulla “taja”, ossia una robusta cassa quadrata di legno fissata su quattro piedi, un tempo arnese del mestiere, sostituito oggi dai moderni apparecchi trita carne.
I contadini si sentivano quasi onorati da tale visita e la ricambiavano con doni costituiti in prevalenza da prodotti suini come salsicce o cotechini oppure da uova dei propri pollai. Il lungo e festoso giro si concludeva in serata in una trattoria del borgo (per molti anni era quella della “Fortezza” in piazza San Rocco o quella dei Savorgnani in via Vittorio Veneto) con una solenne scorpacciata e abbondanti libagioni che talvolta avevano una coda anche il giorno successivo e alle quali i norcini rendevano compartecipi anche molti loro amici e conoscenti.
Le due leggende della Dama Bianca
Da “Gorizia e il suo castello; leggenda e arte”, 1937, di Ranieri Mario Cossàr, pp. 39 – 41
Siora Stellina
Era una notte cupa. Ai frequenti lampi susseguivano tuoni assordanti. Nel Borgo del Castello regnava un silenzio sepolcrale, rotto solo dall’infuriare della bufera.
Nella via nota col nome: “Daur i cuardàrs” (dietro i cordaioli), e precisamente sul prato sottostante al “Torrione della fortezza” passeggiava imperterrita una signora vestita di bianco seguita da quattro cagnolini.
Narra la leggenda che un delitto è stato perpetrato in quel luogo in tempi assai remoti. Vittima un baldo garzone amato dalla “Sior Stellina”, trucidato da un signorotto.
Quanti vecchi “Castellani” non videro “Siora Stellina”, quando al Torrione dell’orologio in castello e nei villaggi circonvicini scoccava la mezzanotte.
Quante mamme impaurite non dicevano ai bimbi: “Ocio, che no ti ciapi Siora Stellina” (Bada, che non t’acchiappi Siora Stellina)!
Ricorda pure la leggenda come un bimbo un dì abbracciato e baciato da “Siora Stellina” divenisse uno dei più grandi Capitani di ventura.
Ma se qualche coraggioso inseguiva “Siora Stellina”, quest’ultima spariva in una vampa di fuoco, lasciando dietro di se un odore acre e asfissiante da far cadere in deliquio il persecutore.
Gli alabardieri e i fucilieri, che dalle alte mura vedevano “Siora Stellina” si rannicchiavano in qualche cantuccio, facendosi il segno della Santa Croce.
Forse nessuno degli storiografi goriziani scrisse di “Siora Stellina”, ma i “Castellani” dicono: “Siora Stellina esiste ancora”.
Sì, Castellani, “Siora Stellina” esiste ancora, e chi ad ora tarda gira per il borgo l’incontra di certo. Lo spirito di “Siora Stellina” vivrà alla consumazione dei secoli.
“Siora Stellina” dovrà ramingare finché non verrà colui che, da un tronco d’albero crescente entro le mura del castello, non le preparerà una culla o cuccetta che sia.
Lo Spettro della contessa Caterina
Ben più spaventosa della comparsa di “Siora Stellina” è l’apparizione della contessa Caterina, sempre accompagnata da sette grossi mastini, che orribilmente ringhiano e latrano. Il cronista ci sa narrare ch’essa signoreggiava queste terre, vipera nell’animo, crudele nelle azioni ed intenta solo ad ammassare tesori, che nascondeva nei reconditi antri del Castello.
Teneva sotto di sè una schiera di domestici, sempre ad essa proni ed obbedienti. I mastini, che l’accompagnavano, erano ammaestrati in modo che ad un suo semplice cenno assalivano chi la padrona volesse, sbranandolo e sbrandellandolo.
Durante una notte burrascosissima un messo d’Aquileia, con un sacco pieno d’oro che voleva recare altrove, chiese ospitalità nel Castello. L’altera virago esaudì la domanda, ma risaputo del carico d’oro ch’egli portava, la vinse cupidigia di possederlo ed uno dei suoi bravi ordinò che al momento della partenza dell’ospite gli sguinzagliasse addosso i cani.
E così avvenne. – il bravo obbedì ed i cani furono sguinzagliati contro il messo, che si difese disperatamente dagli assalti delle feroci bestiacce, ma dovette soccombere nella lotta ineguale e la contessa fece suo il sacco d’oro, nascondendolo nei sotterranei labirintici del Castello.
Un servo, spinto dall’ingordigia di possedere quell’oro, la seguì nei meandri del sotterraneo ed allorché la contessa ne voleva uscire, la uccise. Ma inutile assassinio, poiché – per quanto il servo cercasse – il tesoro non lo poté trovare.
Continua la leggenda: se fosse qualcuno, che all’apparire dello spettro della contessa Caterina, avesse il coraggio di domandarle dove il tesoro fosse nascosto, essa sarebbe liberata dal suo crudo destino e troverebbe la desiderata esterna pace.
Preparativi, malintesi e tenzone in attesa della Dama Bianca
Dal “Piccolo” 22 gennaio 1955
Decisamente gastaldi e milizie dei borghi cittadini, preferiscono le ore della notte per le loro attività: i cronisti incaricati del servizio vengono pertanto sottoposti a faticose peregrinazioni notturne, con tutte le conseguenze del caso (siamo d’inverno!).
Dopo i noti episodi di assalti e rapimenti va segnalato stavolta la cavalleresca riunione svoltasi l’altra alla “Fortezza”, la vecchia e gloriosa trattoria dell’ancor vecchio e glorioso Borgo San Rocco un borgo che sta lavorando in silenzio come ultimamente abbiamo riferito, ma con alacrità in vista delle carnascialesche competizioni alla insegna della “Dama Bianca”. Alla “Fortezza”, quindi, ha avuto luogo il convegno fra i maggiorenti di quel Borgo ed il priore di Borgo Castello. È stato un simpatico e cordiale convegno. Invitato dal Gastaldo sanroccaro Umberto Bressan, il Priore del Castello seguito da un manipolo di milizie e dagli aedi del Borgo è giunto alle 21 alla trattoria “Alla Fortezza”. Ad attenderlo erano i componenti il Comitato del Borgo, con il loro Gastaldo. Dopo un amichevole saluto non poteva tardare il classico “doppio di bianco” recante i nastri con il colore del Castello. Un brindisi cordiale e poi, in segno di saluto, un esibizione impeccabile della Corale del Borgo San Rocco. Ha fatto seguito il Borgo Castello e le “voci bianche” delle guardie del Priore hanno intonato l’inno di Borgo Castello: un inno di 300 anni fa riesumato per il Carnevale della “Dama Bianca”. Applausi fragorosi per entrambi i complessi esecutori.
Ma al Borgo San Rocco quella cerimonia non poteva concludersi semplicemente così. Era pur necessario far risaltare quanto di più caratteristico e tradizionale possiede il vecchio Borgo: così, presentati in ampi vassoi in un alone di fumo fragrante sono giunti gli “ufiei”. È stata una scena pittoresca. La poetessa “Cassandra”, una sanroccara al cento per cento, avrebbe potuto attingere alla sua vena inesausta ed eternare con pregevoli versi lo spirito dell’episodio. Qualcuna fra le più giovani guardie del priore ha rivelato, tuttavia, un’ingenuità imperdonabile. Pensando ad un feroce scherzo dei sanroccari, s’è precipitato addosso al priore Mishou, strappandogli dalle mani un “ufiel”, nella convinzione che per gioco fossero stati serviti dei topi lessi la cosa non ha avuto seguito fortunatamente.
Ma la cerimonia non era ancora finita. Dopo i lampi al magnesio dei fotografi, il priore Mishou veniva invitato all’esterno, sulla piazza, per posare ancora una volta, in un atteggiamento particolare. I sanroccari, volevano, infatti che il severo priore venisse ritratto, immerso all’inguine nel “laip”. Il “laip”, per chi non lo sapesse, era una vasca che fino a cinquant’anni fa era sita in via Lunga all’imbocco dell’androna del Pozzo in Borgo San Rocco. Vi venivano immersi talvolta i gabellieri e addirittura le guardie impopolari. Il Priore Mishou, si rifiutava, per altro, di prestarsi a tanto e si faceva ritrarre, invece, nell’atto di stringere la mano dinanzi alla vasta al Gastaldo Bressan. Quindi la conclusione della cerimonia. Salutati da “urrà”, gli uomini dei due borghi si dividevano. E mentre i sanroccari rientravano alla loro “Fortezza” le milizie del Castello, tamburo in testa, si avviavano al loro quartier generale.
Dai rappresentanti del Borgo Contado riceviamo il quinto comunicato ufficiale. Riferisce della riunione svoltasi l’altra sera al Leon Bianco sotto l’attenta sorveglianza di “Sior Pieri” e nel corso della quale si sono esaminati diversi problemi di vivo interesse. Fra l’altro si è discusso di speciali ricompense da assegnare ai borghigiani distinti ultimamente nell’azione condotta in Borgo Coronini.
Dal Borgo Castello, frattanto, giunge notizia del terzo ballo borghigiano. Avrà luogo alla “Dama Bianca” domani sera con inizio alle 21. Saranno offerte copiose libagioni in onore del Conte Nero, che continua a rimanere sconosciuto. S’annuncia altresì l’esibizione dell’odalisca Fatima, giunta da Damasco espressamente.
Dal Gazzettino del 22 gennaio 1955
(...) Limpida è invece l’amicizia tra borgo Castello e borgo San Rocco. L’altro pomeriggio Miscou ha reso visita solenne, seguito da tutti i suoi. I sanroccari si sono dimostrati di un’ospitalità munifica. Hanno offerto “ufiei” cioè rape bollite, piatto tradizionale del borgo, mangiate voracemente dal priore e dal suo seguito. Poi il coro di San Rocco, diretto da Bruno Cumar, ha cantato in onore degli ospiti alcune belle villotte. Il Gastaldo Umberto Bressan, il factotum Luigi Camauli, il Cavalieri Pietro Ciochetti e tutti gli altri dignitari mostravano dei sorrisi da spaccarsi le guance fino alle orecchie. Da “La Fortezza” arrivavano fiaschi di vino a grappoli. Per rinsaldare l’amicizia e l’alleanza, il Gastaldo Bressan ha invitato Mishou a lasciarsi fotografare in atteggiamento chino sopra il “Laip”, che sarebbe la vasca ai piedi dell’obelisco di Piazza San Rocco, dentro la quale, nei tempi andati, di tanto in tanto (ill.) qualche vagheggino d’altri borghi della città, che fosse andato a dar fastidio alle donzelle di quelle parti.
Mishou ha fatto osservare che l’atteggiamento sarebbe stato interpretato come una specie di atto di sottomissione, al che quelli di Borgo San Rocco hanno risposto che non ci avevano pensato.
Allora, diplomaticamente, gastaldo e priore hanno posato insieme davanti al “Laip”, stringendosi la mano. Fatto questo, Mishou e i suoi se ne sono andati via senza salutare, e figurarsi la faccia dei sanroccari che avevano predisposto altre villotte, fiaschi di vino, argomenti da trattare e preparato un carro tirato da buoi per ritrasportare gli ospiti in castello. Qualcuno insinua Mishou il tragitto lo avrebbe compiuto come prigioniero, lungo un trionfale itinerario cittadino esposto al ludibrio della popolazione. Ma non sono, queste, intenzioni da attribuirsi ai sanroccari, che si sono invece preoccupati di porre una seria ipoteca per l’elezione della Dama Bianca: hanno infatti eletto a loro damigella la signorina Edda Gurtner già “Miss Cinema” per la Venezia Giulia.
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