Impastate 430 g di farina di forza setacciata con 3 uova, 45 g di zucchero, 20 g di olio d’oliva, 15 g di aceto, 10 g di grappa e 10 g di liquore all’anice, la scorza grattugiata di limone ed un pizzico di sale. Allargate l’impasto a rettangolo e date due giri di pieghe a vuoto a tre come fosse una pasta sfoglia e lasciate riposare una notte in frigorifero.
Tirare la pasta al minimo spessore possibile, all’ultima tacca della macchinetta stendi-pasta e tirate poi ancora con il mattarello. Ritagliate rettangoli e friggeteli in olio di arachidi a 175° fino a doratura. Servite con abbondante zucchero a velo.
Si possono anche realizzare una sorta di ravioli di pasta ripieni di marmellata, poi fritti. In questo caso si parla di rafiòi, rafiòi dolzi.
I dolci fritti sono la cifra del Carnevale e tra questi spiccano i crostoli che sono presenti in tutta Italia con ricette simili, ma nomi diversi. Frappe, cenci, stracci, carafòi, chiacchiere, fiocchetti, lattughe sono solo alcuni dei geosinonimi che rendono affascinante e ricco il lessico della lingua italiana nelle diverse aree del nostro territorio.
Nella nostra varietà regionale sono conosciuti come cròstoli o cròstui o anche rafiòi, se ripieni di marmellata, e accanto a queste forme troviamo le forme slovene fláncati o štraube. Presenti ad Aquileia sin dai tempi della sua deduzione con le frictilia romane, rettangoli di pasta cotti nel lardo fuso, erano serviti durante i Saturnali, festività simili al nostro carnevale.
Sono dolci friabili sottilissimi tanto che il Maestro Martino, cuoco del Patriarca di Aquileia, nel suo ricettario di metà ‘400, li chiama ‘frittelle piene di vento’. ‘Nomen omen’ dato che la caratteristica dell’impasto è quella di gonfiare durante la frittura, formando bolle d’aria all’interno. E Paolo Santonino, cancelliere sempre del Patriarca di Aquileia, nei resoconti di viaggio di fine ‘400 in Carnìola e nella Contea di Gorizia ricorda di aver mangiato delle frittelle che chiama, in tedesco, ‘Nonnenfürze’, letteralmente ‘peti di monaca’, termine che viene ripreso da diversi testi rinascimentali e manoscritti di cucina di conventi di area germanica e perdura ancora oggi in Francia con i bignè ‘Pets de nonne’, che Inghilterra diventano ‘nun’s puffs’ (soffi o venticelli di suora).
Da ultimo si potrebbe ricordare che il dolce è denominato anche ‘bugia’, cioè una menzogna o calunnia e che questa è un venticello, come ricorda Gioachino Rossini nel Barbiere di Siviglia, opera buffa composta per il Carnevale del 1816.