Formazione, stile, opera di un illustre testimone del Novecento artistico cittadino
Emma Gallovich (il cognome fu italianizzato in Galli con decreto prefettizio del 28 giugno 1929
[1]) nacque a Trieste il 26 aprile 1893 (in alcuni testi si dice, erroneamente, che nacque nel 1895) e fu battezzata nella Chiesa di S. Antonio Taumaturgo. Nel grande capoluogo ebbe luogo anche la sua prima formazione artistica con il maestro Giuseppe Garzolini
[2], specialmente per il ritratto, e nella scuola di Giovanni Zangrando
[3] e di Guido Grimani
[4], dai quali attinse alle componenti venete e soprattutto monacensi della pittura, e infine con Argio Orell
[5]. La madre Paola Foerg (poi italianizzato in Fera) era triestina mentre il padre Giovanni, oriundo di Cherso, fu capitano di lungocorso del Lloyd triestino e portava spesso alla figlia Emma, dai lunghi viaggi di lavoro, immagini e stampe, soprattutto dell’estremo oriente: in questa maniera l’artista venne in contatto con stili e scuole internazionali. Sono giunte a noi alcune tele di quegli anni, a soggetto orientalista, nelle quali traspare l’intenzione dell’autrice di riproporre un ambiente che aveva visto, probabilmente, solo attraverso cartoline o illustrazioni e lo riproduce con vivacità di colori e realismo, dimostrando fin da subito quell’acume e quella vivacità intellettiva caratteristiche che l’accompagneranno per tutta l’esistenza. Dopo aver completato la formazione magistrale, proseguì gli studi specializzandosi presso la Kunstgeweberschule di Monaco di Baviera (1918 – 1921, sostenendo anche i fondamentali esami in accademia) da dove ritornò, come scrive il prof. Sergio Tavano, “
con gli occhi pieni delle macchie larghe e pastose che dissolvono il dato obiettivo”. Nella città bavarese tardo impressionistica
[6], in quei primi decenni del Novecento, si intrecciavano altri stili e altre correnti che influenzarono in modo assai proficuo artisti friulani, triestini e goriziani tra i quali Cesare Sofianopulo (1889 – 1968), Carlo Wostry (1865 – 1943), Alice Dreossi (1887 – 1967), Gemma Verzegnassi (1882 – 1971), Arturo Fittke (1873 – 1910), Pietro Marussig (1879 – 1937), Gino de Finetti (1877 – 1955), Adolfo Levier (1873 – 1953), Gino Parin (1876 – 1944) e altri ancora. Come scrive Sergio Tavano nel presentare una delle rarissime vernici della Galli, nel marzo del 1979, “
se si vogliono scoprire i fatti costitutivi e singolari della fisionomia culturale ma anche civile della nostra terra, appare quanto mai istruttiva la conoscenza dell’opera di Emma Galli, sia per quanto lascia attorno a noi, sia soprattutto perché ci permette di attingere alle premesse della formazione di quasi tutti gli artisti giuliani dell’ultimo Ottocento”.
Subito dopo, nel 1928, la Galli si iscrisse all’Istituto d’Arte di Firenze dove poté approfondire con il maestro Lunardi la tecnica del nudo e lo studio fondamentale dell’anatomia umana, soggiornerà in Firenze fino al 1929. Lo studio del corpo umano e della struttura anatomica le permetteranno di realizzare dei nudi di grande valore, questi disegni, riconducibili in massima parte proprio a quegli anni Venti – Trenta, non troveranno nei decenni successivi una maturazione, o elaborazione (in vero si ritrovano dei nudi femminili degli anni ’50, senza firma, ma certamente attribuibili alla Galli) e pertanto resteranno a testimonianza di un ben determinato momento che si chiuderà a causa dell’innato pudore dell’autrice e della sua profonda religiosità. Questo fu il periodo dei disegni a carboncino e dei bozzetti nei quali l’artista dimostrò fin da subito sicurezza e mano felice nel rendere le figure incisive e immediate. Nei due anni fiorentini si cimentò anche nella difficile tecnica dell’affresco: la grandezza delle dimensioni, la resa plastica e la chiarezza iconografica le saranno indispensabili negli anni futuri soprattutto nella riproduzione dei soggetti sacri commissionati in città, in regione e anche oltre confine. Respinse talune tendenze come il futurismo di Filippo Tommaso Marinetti
[7] ma non rimase indifferente ad altre suggestioni, come all’espressionismo
[8]. Nella sua opera la solidità delle figure, con la dominante realistica che sostiene i soggetti riprodotti, si sposava nell’impressionismo tedesco (assorbito e amato durante gli anni a Monaco di Baviera) di una pittura raffinata, infatti, i momenti più alti ed elegiaci li ebbe proprio ispirandosi al colto disegno di Lovis Corinth
[9], Max Slevogt
[10] e del grande maestro Max Liebermann
[11] e come sottolinea Tavano “
il realismo elegante eppur sobrio, attinto a Monaco, l’aiutò a cogliere gli aspetti del mondo con simpatia e sottile lirismo, disciplinato fino ai limiti dell’impersonalità come un pittore antico, per dare evidenza agli oggetti aristocraticamente paludati e romanticamente sensibili”. Sviluppò una tecnica accurata e precisa, fedele al reale e alla psicologia del soggetto raffigurato: doti che la fecero diventare una vera professionista del ritratto. Veniva richiesta e ricercata dall’ufficialità e dalla borghesia goriziana quando intorno ai primi anni trenta, dopo la morte dell’amato padre, si trasferì nella nostra città, aprendo il proprio studio in Corte Sant’Ilario. A Gorizia in questa prima parte del Novecento, nella quale echeggiava ancora il terribile ricordo della prima grande guerra e tristi presagi si stavano facendo innanzi, si respirava tuttavia un clima artistico e letterario intenso e lavoravano fianco a fianco, senza contrapposizioni o discriminazioni, pittori italiani, sloveni, ebrei, di origine tedesca e austriaca, uniti da comuni interessi e ricerche. Sono gli anni di Veno Pilon (1896 – 1970), Luigi Spazzapan (1889 – 1958), Sofronio Pocarini (1898 – 1934), Antonio Morassi (1893 – 1976), Gino de Finetti, Raul Cenisi (1912 – 1991), Giovanni Cossàr (1873 – 1927), Rodolfo Battig (1894 – 1937), Tullio Crali (1910 – 1999), sarà un momento breve (1925 – 1935) ma intensissimo, illuminato e per certi versi irripetibile. Emma Galli rientra pienamente in questa grande fase dell’arte goriziana e durante il terzo decennio del XX secolo si dedicherà principalmente all’arte del ritratto dal quale traspariva chiaramente, ieri come oggi, la sua poetica e la sua passione per le piccole cose, l’attenzione per il minimo particolare, per il dettaglio ricercato, che svelava la psicologia dei suoi soggetti. Nell’antichissima tradizione di fissare a perenne memoria l’immagine di una persona importante o cara il ritratto ha continuato ad occupare uno spazio di primissimo piano anche dopo la diffusione della fotografia. L’artista si muove non solamente per committenza ma ciò che più gli interessa è il corpo, il volto, la personalità che sprigiona ogni creatura ed è proprio questo che muove la stessa Galli: l’accuratezza e la riproduzione quanto più possibile fedele dell’animo umano che esce dalla tela e giunge all’osservatore. Non si può affatto affermare che il suo lavoro era volto semplicemente a soddisfare il committente, ma tutt’altro, le sue opere si prefiggono di riprodurre con i pennelli quel “quid” che esce dallo sguardo di ogni essere umano dipinto, fosse un amico, un uomo di chiesa o delle istituzioni, fosse un santo. Caratteristica chiave del suo disegno è l’essere al servizio degli altri: l’immagine sacra deve emergere per evidenza di contenuti, per nobiltà e chiarezza di forme che sono finalizzate “all’utile” e mai gratuite e cervellotiche. Così i ritratti non sono mai caricati di un’inutile enfasi aulica, altresì, sono impegnati nella costruzione della verità dove traspare una pennellata sicura, precisa, quasi scolpita, che riveste di lirica dignità ogni tela. Come sostiene Tavano “
purismo, simbolismo e realismo riescono a convivere felicemente” ciò vale, generalmente, per tutta l’opera ma soprattutto per i ritratti dove il tratto preciso e picchiettato, quasi lievitante, riveste di poesia anche la riproduzione apparentemente più pedissequa. Questo suo personale concetto di pittura al servizio degli altri, legata al reale e priva di qualsiasi tentativo di divagazione onirica, fecero di Emma Galli una fedele riproduttrice attenta all’evidenza del vero, un’artigiana del pennello che cercò, durante tutta la sua vita: la chiarezza, la trasparenza, la luminosità delle forme e degli sguardi e una delle sue specialità sono le inconfondibili mani che arricchiscono con la loro precisione e naturalezza quasi ogni dipinto. Si può affermare che le sue opere raffigurano “un istante”, “un momento” ben preciso nel tempo, quasi la Galli volesse fermare sulle tele le immagini con uno stile che univa alla particolare attenzione e ricerca del vero, l’immediatezza nella resa espressiva e luministica, stile inconfondibile che conserverà nei decenni e che caratterizza tutte le sue opere già al primo sguardo, rendendole tipiche. Il suo lavoro e la sua obiettività, ai limiti dell’impersonalità, potrebbero apparire delle scelte anacronistiche in tempi in cui la pittura si distanzia dalla fotografia; invero questo è l’atteggiamento di un “pittore antico” ed è questa la sua peculiarità più intrinseca. Il suo disegno, vero, intelligibile, reale e onesto la fecero divenire ben presto la ritrattista cittadina, a riprova ricordiamo che gran parte dei sindaci visitarono il suo studio di Corte Sant’Ilario, oltre ai Presidenti della Cassa di Risparmio della città e alle famiglie più notabili che facevano letteralmente a gara per venire in possesso di una sua tela.
Le sue opere presenti e visibili a Gorizia e provincia sono veramente molte e vanno dalla famosa “Galleria dei Sindaci” nel Comune di Gorizia (Giovanni Stecchina 1945 – 1947, Ferruccio Bernardis 1948 – 1961
[12], Luigi Poterzio 1961 – 1964 e Franco Gallarotti 1964 – 1965) che comprende anche la serie dei ritratti degli antichi podestà e di alcuni cittadini illustri da lei riprodotti da fotografie (come Graziadio Isaia Ascoli e Italico Brass), ai ritratti di tre Arcivescovi Carlo Margotti
[13], Giacinto Giovanni Ambrosi
[14] e Andrea Pangrazio
[15] (sia nella Sala del Trono del Palazzo Arcivescovile che nella Sacrestia dei canonici in Cattedrale), ai ritratti di Papa Giovanni XXIII (al secolo Angelo Giuseppe Roncalli) e Benedetto XV (al secolo Giacomo Della Chiesa) straziato e impotente davanti lo scempio del primo conflitto mondiale, per giungere alle numerosissime pale d’altare e tele con figure di santi e scene tratte da testi biblici del Vecchio e Nuovo Testamento. Dedicò molta parte del suo tempo all’arte sacra, in prevalenza dipinti, ma anche mosaici e vetrate, interpretando questa espressione artistica come servizio e come manifestazione della propria fede religiosa. Fu merito dell’educazione ricevuta, ma anche della sua personale inclinazione, il prediligere questo linguaggio pittorico dal quale respinse il concetto di gratuita fuga nella fantasia e nell’emozione ineffabile. Nella ricostruzione del primo dopoguerra
[16] lavorò per varie chiese di Gorizia e del Goriziano e realizzò quadri di grandi dimensioni per le chiese d’oltre confine a Šempeter (San Pietro), Bovec (Plezzo), Plava, Log Čezsoški (Oltresonzia); sue tele si trovano inoltre fuori regione a Bassano del Grappa, Bergamo, Lodi e Vittorio Veneto.
Vanno ricordati anche gli affreschi della chiesa di Drežnica (Dresenza), la Via Crucis della Chiesa di Monte Grado a Merna (andata completamente distrutta nella seconda guerra mondiale, esiste un’unica fotografia del 1932 raffigurante la dodicesima stazione), della chiesa di Šempeter (San Pietro) oltre confine datata 1929, della Cappella nella Casa di Riposo “Angelo Culot”, della Chiesa dell’Immacolata e dei Cappuccini a Gorizia nonché le molteplici e monumentali decorazioni della Chiesa del Sacro Cuore a Trieste
[17], realizzate grazie alle tecniche studiate e maturate negli anni giovanili. A Gorizia realizzò numerosi dipinti nella Chiesa del Sacro Cuore, tra cui la famosa e splendida pala dell’abside, dalle dimensioni di sei metri, dove si notano il Sacro Cuore
[18] in alto, grandioso e troneggiante, in mezzo all’altare con un calice e l’ostia raggianti, con a fianco S. Margherita Maria Alacoque e San Claudio de la Colombière, in basso a destra lo stimatissimo Arcivescovo Margotti, in Cappa Magna che presenta il modello della Chiesa e accanto, a sinistra, Papa Pio XI (al secolo Achille Ratti) con il triregno e ricoperto da un enorme piviale d’oro che offre a Cristo la corona della regalità; anche i grandi dipinti di S. Antonio, San Giuseppe con ai piedi la riproduzione della Basilica Vaticana, San Giovanni Bosco, San Martino, San Francesco Saverio e San Gaetano sono a firma Galli e tutti datati 1938. Nella Cattedrale sono ben visibili due notevoli opere della pittrice: nel primo altare dall’ingresso secentesco, in origine chiamato delle anime, si trova posizionata una grande pala del 1929 di Santa Teresa di Gesù bambino con raffigurati, accanto alla santa, il campanile del Duomo e gli stemmi dell’Arcidiocesi e del Comune di Gorizia e nel primo altare di sinistra è ammirabile un grande Sacro Cuore, anch’esso del 1929, dove inizialmente era situata la statua della Madonna ora collocata sulla scala di sinistra verso la galleria. Nella Chiesa dei santi Vito e Modesto è possibile ammirare un altro Sacro Cuore, a firma Gallovich, dalle dimensioni più ridotte che colpisce per la resa plastica, nella Chiesa della Campagnuzza sono presenti una Santa Rita da Cascia e due pale poste nel presbiterio (in alto alle spalle dell’altare) a sinistra San Biagio e a destra Santa Eufemia con il leone e la ruota (un’altra Santa Eufemia fu donata alla Chiesa Cattedrale di Grado che porta proprio il titolo di Santa Eufemia). Nella casa di riposo “Villa San Giusto” sono esposte delle grandi tele raffiguranti Papa San Pio X (al secolo Giuseppe Sarto), San Giuseppe, San Giovanni Grande dei Fatebenefratelli, S. Antonio da Padova, un’importante Crocifissione simile, ma non identica, a quella presente nel Palazzo Arcivescovile, e un commovente volto di Cristo in matita, mentre nella Parrocchiale è visibile un olio su tela rappresentante il Cristo in croce. Nella Canonica di San Rocco è da segnalare un gradevole bozzetto a matita con due mani che si stringono (chiaro esempio della tecnica assorbita negli anni fiorentini). Nella Chiesa del Convitto San Luigi trovano ottima collocazione, negli altari laterali, alcune pale realizzate dalla Galli tra il 1942 e il 1964 rappresentanti l’Angelo custode, San Luigi bambino, San Giovanni Bosco bambino e lo stesso santo, sulla parete di sinistra del presbiterio, enorme e nella piena maturità con alle sue spalle alcune opere realizzate grazie al suo carisma, sulla parete di destra invece è ben visibile una tela che raffigura le Anime del Purgatorio. Nel Palazzo Arcivescovile sono presenti numerose opere tra le quali una splendida crocifissione e la notevole “Galleria Galli” con numerose scene tratte dal Nuovo Testamento, tra cui citiamo l’Adultera e il Giovanni Battista. Emma Galli nel Novecento, al pari di Giuseppe Tominz nell’Ottocento, può essere considerata veramente la “ritrattista cittadina ufficiale”; difatti se rileggiamo le cronache degli anni ’50 e ’60 riscontreremo che “
molti goriziani accorrevano nello studio della pittrice Emma Galli per ottenere un ritratto di sé o della propria famiglia”. L’enorme mole di quadri prodotti non ha certo reso semplice la ricerca e la scelta ma ci ha dato uno spaccato della fama che l’artista aveva a Gorizia e nei dintorni anche perché la sua pittura semplice, schietta, precisa e vera sapeva colpire l’osservatore. La Galli lavorò anche per diverse chiese della Provincia: a Gradisca nelle chiese del Santo Spirito e dell’Addolorata, a Cormòns nella Chiesa Cattedrale di S. Adalberto dove trova posto nel primo altare di sinistra una Pala raffigurante Maria Maddalena ai piedi della Croce, a Capriva nella Parrocchiale si notano le pale di San Michele Arcangelo con i Ss. Giovanni Evangelista e Stefano del 1930, la Madonna con S. Anna e un grande Cristo datato 1944, a Bruma e a Tapogliano. Nei conventi delle Suore della Provvidenza
[19] (a Gorizia e Udine) e sono visibili numerose opere nella pensione “Stella Maris” a Grado. Numerosi ritratti sono custoditi nei Musei Provinciali di Gorizia tra i quali devono essere tenuti in grande considerazione l’anziana in abito dalmata, il ritratto giovanile della sig.ra Padovan Mosche, il ritratto di un anziano e di una popolana, una maschera o un giullare, la casa di via Marconi e il ritratto dell’avv. Angelo Culot Presidente della Provincia.
La pittrice visse gli ultimi tredici anni della sua vita (1969 – 1982) tra la Casa di Riposo “Angelo Culot” e il suo studio di Corte San Ilario nel quale continuerà a dipingere con la stessa intensità degli anni giovanili. Il 27 dicembre del 1982 il quotidiano “Il Piccolo” così intitolava un editoriale dell’artista Fulvio Monai “Grave lutto per l’arte goriziana. È deceduta a Natale la pittrice Emma Galli”, infatti, la pittrice si spense proprio il 25 dicembre di quell’anno, nell’Ospedale Civile di via Vittorio Veneto, non lasciando eredi, e riposa, insieme ai suoi familiari, nel Cimitero Centrale di S. Anna a Trieste. La sua personalità e il suo lavoro restano a testimonianza di una donna che ha reso un’indelebile servizio a Gorizia in qualità di attenta, puntuale e privilegiata osservatrice delle grandi personalità che il capoluogo isontino ha avuto l’onore di ospitare negli anni cruciali della sua millenaria esistenza. Come scrive il Maestro Pittore Monai (1926 – 1999), ricordando l’artista scomparsa, “
in oltre sessant’anni di lavoro Emma Galli ha dato prova di una rara serietà professionale, senza esibizionismi, con fedeltà esemplare alle proprie convinzioni, attestandosi a buon diritto nell’ambito dell’arte regionale come una esponente attendibile e qualificata di un clima e di una ben definita civiltà”.
Il lavoro che si prefigge questa pubblicazione è la riproduzione di un numero considerevole e significativo dei quadri, pale d’altare, ritratti, paesaggi locali, nudi e studi di vario genere, di maggiore rilevanza, che sono presenti in città e in provincia, per far riscoprire alla collettività Emma (Gallovich) Galli, un’artista quasi completamente dimenticata e della quale è stato detto troppo poco. Il materiale raccolto permetterà di osservare a trecentosessanta gradi il lavoro della pittrice goriziana. Il primo capitolo di questa pubblicazione è dedicato al Settecento e all’Ottocento Goriziano e in modo peculiare a Paroli e Tominz, due artisti che hanno indelebilmente segnato l’arte cittadina e che si caratterizzano l’uno per il genere sacro, l’altro prettamente per l’arte del ritratto. Il secondo capitolo tratteggia la formazione, lo stile e l’opera In questo volume vengono pubblicate le tele che si trovano: nel Palazzo Arcivescovile, in Curia e nell’Archivio della Curia Arcivescovile, nel Palazzo del Municipio di Gorizia, nella Pinacoteca dei Musei Provinciali, nella Pinacoteca della Cassa di Risparmio di Gorizia, nella Cattedrale di Gorizia, nella Chiesa del Sacro Cuore di Gorizia e Trieste, nella Chiesa della Campagnuzza “Madonna della Misericordia”, nella Chiesa e nella Casa di Riposo “Villa San Giusto”, nella Chiesa “Santa Maria Assunta” dei Frati Cappuccini, nelle Comunità di Gorizia e Udine delle Suore della Provvidenza, nella Chiesa dei SS. Vito e Modesto, nel Convitto Salesiano “San Luigi”, nella Chiesa dell’Immacolata, nella Chiesa di San Rocco, nella Cattedrale di S. Adalberto a Cormòns, nella Chiesa del Santo Spirito di Gradisca, nella Chiesa dell’Addolorata di Gradisca, nella Chiesa del Santissimo Nome di Maria a Capriva, nella Chiesa di Šempeter (San Pietro) in Slovenia, nonché le opere più significative delle collezioni private cittadine: famiglia dott. Alesani, famiglia Susmel, mons. dott. Ristits, don prof. Michele Centomo, suor Concetta Salvagno, famiglia Madriz Macuzzi, famiglia Faganel, famiglia Feresin.
[1] In altre pubblicazioni si trova erroneamente che il cognome su italianizzato nel 1935.
[2] Nacque a Trieste nel 1850, fu autodidatta. Espose in Germania, Italia e Austria, rifiutando l’invito alla Biennale di Venezia. Esperto nel paesaggio, dal fare impressionista per l’uso del colore e della luce, fu maestro per molti pittori triestini ed ebbe grande notorietà grazie a una serie di paesaggi spagnoli e dell’Andalusia che realizzò durante alcuni viaggi nella terra di Spagna. Fu tra i più attivi artisti triestini a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Morì a Trieste nel 1938.
[3] Nacque a Trieste nel 1867 e frequentò l’Accademia di Venezia, avendo come maestri il Cadorin e il Momenti. Si dedicò maggiormente al ritratto e al paesaggio. Il suo fu un impressionismo pieno di colore e di luce con peculiare attenzione all’equilibrato gioco chiaroscurale. Ebbe una formazione europea ma restò veneto, insegnò pittura insieme all’amico Guido Grimani. Morì a Trieste nel 1941.
[4] Nacque a Trieste nel 1871, fu allievo del pittore Crevatin e iniziò ad esporre alla giovanissima età di quattordici anni. La critica gli fu favorevole fin da giovane e la notorietà lo raggiunse quasi immediatamente. Studiò a Trieste alla “Scuola per Capi d’Arte” e si perfezionò a Monaco di Baviera con i maestri Knirr e Herterich. Nel 1914 espose alla Biennale di Venezia una serie di paesaggi libici, frutto del suo soggiorno in colonia e partecipò alla rassegna veneziana fino al 1920. Fu artista apprezzato per la purezza del linguaggio e la perfezione tecnica che derivava dal mondo tedesco, ma guardava anche, con interesse, ai paesaggi veneti riprendendone la brillantezza dei colori. Di lui si notano in modo particolare gli effetti luministici e la capacità di mettere in evidenza le atmosfere. Morì a Trieste nel 1933.
[5] Nacque a Trieste nel 1884, fu allievo dello Scomparini alla “Scuola per Capi d’Arte” di Trieste. Frequentò successivamente a Monaco la scuola dello Stuck e al suo rientro si fece notare con una mostra alla Galleria Schöllian ottenendo un brande successo di pubblico e di critica. Dipinse soggetti molteplici riuscendo bene sia nel ritratto che nel paesaggio o nella pittura con figurazioni simboliche o allegoriche. Fu anche un ottimo grafico, il suo lavoro si mosse nella ricerca della stilizzazione delle forme e nella ricerca espressiva. Si spense a Trieste nel 1942.
[6] Anche l’espressionismo, l’astrattismo e il realismo si stavano imponendo nella città tedesca di Monaco, ispirando il lavoro di numerosi artisti.
[7] Fu il fondatore del futurismo con il manifesto pubblicato sul Figaro, il 20 aprile del 1909, contenente tutte le tesi del nuovo movimento: rottura con il passato, polemica contro l’accademia, celebrazione della civiltà meccanica e del suo dinamismo, ammirazione per ogni sorta di energia e di aggressività, distruzione della sintassi tradizionale per una ricerca di immediatezza e sincerità nell’espressione.
[8] Corrente culturale d’avanguardia che sorse in Germania all’inizio del Novecento come reazione all’impressionismo e al naturalismo. Inizialmente si sviluppò nelle arti figurative per poi estendersi alla letteratura, alla musica e al cinema, proponendo una rivoluzione del linguaggio. Gli espressionisti tedeschi furono anche capaci grafici oltre che pittori; partirono sul piano formale dalle lezioni di Munch, Van Gogh, Gauguin, Ensor. L’Espressionismo fu un fenomeno di vasta portata nel quale il linguaggio del colore si fece sempre più libero e intenso.
[9] Nacque a Tapiau in Prussia Orientale nel 1858, studiò a Weimar e Monaco e soggiornò per diversi anni a Parigi (1884 – 1887). Da lì si trasferì prima a Monaco e poi a Berlino dove divenne uno dei principali esponenti della “Secessione Berlinese”. Fu ammiratore di Rubens, eseguì grandi composizioni di soggetto biblico e mitologico, ma la parte più significativa della sua opera è costituita dai ritratti e dai paesaggi. Morì a Zandvoort, Paesi Bassi, nel 1925.
[10] Nacque a Landshut, Baviera, nel 1868. Studiò a Monaco, nel 1889 si trasferì in Francia e in Italia. Partendo dalla pittura degli impressionisti si affermò per la vivacità e l’eleganza del tocco. Fu anche litografo e incisore e svolse l’attività di scenografo per l’Opera di Dresda. Insieme a Corinth e Liebermann fu tra gli artisti più significativi della “Secessione Berlinese”. Morì a Neukastel nel 1932.
[11] Nacque a Berlino nel 1847, durante il soggiorno in Francia (1873 – 1878) studiò a Barbizon con Millet e dipinse a tinte vivaci operai, contadini e scene di vita proletaria, senza mai cadere nel patetismo. Avvicinatosi all’impressionismo schiarì la sua tavolozza. Si stabilì successivamente a Monaco, poi a Berlino (1884) dove fu a capo della “Nuova Secessione” nel 1898. Predilesse il paesaggio. Morì a Berlino nel 1935.
[12] Il nome di Ferruccio Bernardis è legato alla ripresa dell’attività del Comune di Gorizia. Nacque il 3 marzo del 1906 nell’Isola di Veglia, nel 1937 divenne primo Segretario della Provincia e nel 1948 fu eletto Consigliere Comunale nella lista della Democrazia Cristiana. Il primo Consiglio Comunale, che si riunì nella Sala degli Stati Provinciali in Castello elesse Bernardis sindaco con 25 voti. Si spense il 5 gennaio del 1993.
[13] Nacque ad Alfonsine di Romagna il 22 aprile del 1891. A Bologna frequentò i corsi di lettere e filosofia laureandosi a pieni voti, dopo aver preso il dottorato in Sacra Teologia ottenne la terza laurea, nel Pontificio Ateneo Lateranense, in diritto canonico. Fu poliglotta e anche grazie a questa sua dote entrò nella Congregazione per le Chiese Orientali come minutante. Il 3 marzo del 1930 fu nominato Delegato Apostolico in Grecia e Turchia e il 25 marzo ricevette la consacrazione episcopale dal Cardinale Luigi Sincero, Prefetto della stessa congregazione. Dopo quattro intensi anni sulle rive del Bosforo venne promosso alla sede Arcivescovile di Gorizia (il suo posto fu dato a mons. Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII) e ne prese possesso il 23 settembre del 1934. La preoccupazione principale che ebbe negli anni di episcopato fu quella di formare spiritualmente gli alunni del seminario. Durante l’occupazione delle truppe dell’Esercito Yugoslavo (1945) fu imprigionato in Villa Coronini Cromberg e grazie all’interessamento del governo italiano ebbe salva la vita, liberato rimase in esilio per qualche tempo. I terribili avvenimenti che aveva subito sfibrarono la sua esistenza, ma negli ultimi cinque anni della sua vita continuò a prodigarsi per riorganizzare la mutilata Arcidiocesi. Si spense il 31 luglio 1951, la sua salma riposa nella Chiesa del Sacro Cuore che lui avrebbe voluto quale nuova Cattedrale.
[14] Nacque a Trieste il 29 gennaio del 1887, entrò giovanissimo nell’ordine dei Cappuccini e venne ordinato sacerdote a Venezia. Ebbe svariati incarichi nell’ordine, come professore di filosofia, Superiore locale e Provinciale della Provincia Veneta. Fu visitatore Generale delle Missioni in Brasile e il 13 dicembre del 1937 venne elevato alla sede Vescovile di Chioggia dove vi rimase per quattordici anni. Alla morte di mons. Margotti veniva nominato Amministratore Apostolico dell’Arcidiocesi di Gorizia e il 2 gennaio ne diveniva Arcivescovo, prendendone ufficialmente possesso il 16 marzo dello stesso anno. Fece due volte la visita pastorale a tutta l’Arcidiocesi e durante il suo episcopato si ricordano la solenne celebrazione per il secondo centenario dell’erezione dell’Arcidiocesi. Per motivi di età e di salute lasciò l’incarico e venne nominato Arcivescovo titolare di Anchiano. Morirà poco dopo il 26 settembre del 1965.
[15] Nacque da una famiglia originaria di Asiago il primo settembre del 1909 a Budapest. Ricevette il presbiterato nel 1934 e ricoprì diversi servizi nella sua Chiesa: segretario del vescovo, insegnante, assistente dell’Azione Cattolica e della FUCI Nazionale. Venne eletto Vescovo Ausiliare di Verona nel 1953, successivamente a Livorno e poi titolare della stessa diocesi. Partecipò al Concilio Vaticano II (1962 – 1965) con numerosi e qualificati interventi quale incaricato delle comunicazioni sociali. Fu Arcivescovo di Gorizia per cinque anni dal 1962 al 1967 e ricoprì tra il 1966 e il 1972 l’incarico di Segretario Generale della Conferenza Episcopale Italiana. Dal 1967 al 1984 sarà Arcivescovo della Diocesi Suburbicaria di Porto Santa Rufina, svolgendo molti incarichi per le Congregazioni Romane. Si spegnerà il 3 giugno 2005 e il suo corpo riposa nella Cattedrale di Porto Santa Rufina.
[16] Durante questa fase di ricostruzione post prima guerra mondiale si deve ricordare l’apporto dato dal pittore Tone Kralj (1900 – 1975) e dagli architetti Silvano Baresi Barich (1884 – 1958) e Max Fabiani (1865 – 1962) alla città di Gorizia notevolmente danneggiata dal conflitto.
[17] Dalle cronache si evince che alla fine del 1933, anno giubilare della redenzione, in cui si celebrava anche il XXV° anniversario della fondazione della Chiesa del Sacro Cuore (di Trieste), fu portata a termine la decorazione interna, da tempo reclamata dopo che nel 1929 la pittrice Emma Galli aveva affrescato la parete sovrastante l’arco trionfale con la Gloria di Maria. L’incarico fu affidato al fiesolano Umberto Bargellini che aveva dato prova di sé a Fontane di Lancenigo e agli Scalzi di Treviso. L’opera piena di armonia fu ben accolta dalla popolazione e dai critici “tutto l’ambiente è divenuto signorile per l’indovinata fusione delle tinte, per il simbolismo largamente diffuso e ami pesante che si raccoglie in un unico concetto: il culto al S. Cuore, a cui la chiesa è dedita”. L’altare maggiore progettato dall’architetto Cornelio Budinis nel 1910 e donato dall’Imperatore Francesco Giuseppe, fu consacrato appena nel 1936 da mons. Carlo Margotti. L’arco trionfale è decorato da fregi floreali, cornucopie, testine di cherubini, simboli eucaristici e da quelli degli evangelisti che fanno corona al Crocefisso centrale. Le pareti della navata maggiore si presentano con una ricca tappezzeria distinta in due registri da una fascia divisoria, simile a una tarsia marmorea, che porta racchiusa in medaglioni le figure di mezzo busto dei santi e dei beati della Compagnia di Gesù alternate a simboli ed emblemi; tra questi si riconosce lo stemma del Vescovo Luigi Fogàr. Nel registro superiore, tra ornati floreali, sono rappresentate le virtù cristiane su basamento a finto marmo. Gli affreschi dell’abside sono affidati al triestino Pietro Lucano, che eseguì i due Cherubini reggenti un clipeo fiammante in cui si legge Charitas/Christi/uregt/nos/ e rispettivamente Nos credi/dimus chari/tati. Al triestino Gianni Russian spetta la decorazione della nicchia sinistra con le Storie di S. Giuseppe. La tela di S. Ignazio sull’altare della navatella sinistra è firmata Emma Galli 1943 e alla stessa pittrice appartengono le quattordici stazioni della via Crucis. Le cinque vetrate sono di artigianato boemo. Il nuovo organo della ditta Zanin fu inaugurato nel 1934.
[18] Dopo il 1860, con l’apertura della nuova ferrovia e la conseguente costruzione del Corso cittadino, gli insediamenti abitativi che stavano ampliando la città si disposero verso sud, da qui la necessità per la Diocesi di realizzare un tempio che andasse a rispondere alle aspirazioni di quei cittadini. Nel 1880 fu dismesso il cimitero cittadino, trasferito a nord della città oltre il colle della Castagnevizza, e nel 1891 venne costituito un apposito comitato che aveva il compito di chiedere al Comune la cessione di quel terreno. Fu indetta una sottoscrizione e redatto dall’architetto Antonio Lasciac un progetto che venne giudicato idoneo. Questo progetto prevedeva una costruzione a tre navate in stile romanico – gotico, sormontata da una cupola di 36 metri con a lato del presbiterio un campanile con varie cuspidi, motivo già proposto per la facciata. Per voto del Comitato venne poi deciso di benedire la Chiesa il 2 dicembre 1898, giorno in cui si sarebbero compiuti i cinquant’anni di regno di Francesco Giuseppe I. Il Comune accolse favorevolmente la richiesta di cessione del terreno approvando anche il progetto che doveva essere ultimato nel 1897. La raccolta dei fondi però non diede i risultati desiderati e si dovette soprasedere restituendo al Comune il fondo inutilizzabile. Passarono alcuni anni e, anche grazie al significativo appoggio del Cardinale Giacomo Missia, si decise di guardare a un fondo situato presso la residenza dei Gesuiti, le offerte raccolte da ogni parte dell’Impero coprirono le spese per l’acquisto del terreno e il demanio offrì gratuitamente il legname per l’impalcato che andò totalmente distrutto in un incendio doloso. Il 2 dicembre del 1911 fu posta, da mons. Francesco Borgia Sedej, la prima pietra, in breve le mura raggiunsero l’altezza delle finestre (3 metri) e venne completato il campanile, ma l’insufficienza di fondi e lo scoppio della prima guerra mondiale fecero nuovamente sospendere la costruzione. Alla fine del conflitto prima l’arch. Emilio Pelican e poi l’arch. ing. Max Fabiani dovettero rimaneggiare il progetto originale, modificando anche la splendida facciata progettata dal Lasciac. Il quarto progetto del Lasciac venne accettato, nel 1934. Il 22 settembre di quell’anno mons. Carlo Margotti prese possesso della Diocesi e si dimostrò entusiasta del progetto già il 19 giugno del 1936 si poté officiare la prima Messa dedicata al Capo del Governo, grande promotore della costruzione. La Chiesa venne consacrata il 15 giugno del 1938 dallo stesso Margotti e si tennero grandi celebrazioni anche alla presenza del Cardinale Nasalli Rocca, i festeggiamenti culminarono con la celebrazione, sul Monte Santo del IV centenario dell’apparizione della Madonna.
[19] Dipingerà una serie di tredici quadri dedicata a Luigi Scrosoppi, fondatore delle Suore della Provvidenza, in onore della sua beatificazione avvenuta nel 1981.